Successione. Testamento in fotocopia e irreperibilità del documento originale. Conseguenze.

 Il mancato reperimento del testamento giustifica la presunzione che il de cuius lo abbia revocato, distruggendolo.

La Cassazione civile, Sez. II, con la sentenza del 14-10-2020, n. 22191 sì è occupata della pubblicazione di una fotocopia del testamento, ritenendo che il mancato reperimento dell'originale giustifica la presunzione che il de cuius lo abbia revocato, distruggendolo.

Si riporta uno stralcio: 
 
<<3. La corte d'appello ha riformato la decisione sulla base dei seguenti rilievi: a) la fotocopia del testamento, tale riconosciuta dal medesimo testatore, non è equiparabile all'originale; b) secondo la giurisprudenza di legittimità il mancato reperimento del testamento giustifica la presunzione che il de cuius lo abbia revocato, distruggendolo; c) il mancato disconoscimento della conformità della copia potrebbe consentire la sua utilizzazione, ai fini della prova della esistenza del testamento e del suo contenuto, solo dopo che sia stata data la prova che il testamento ancora esisteva al momento dell'apertura della successione; d) tale prova nella specie non è stata fornita, non essendo idonei a questo fine i capitoli di prova per testimoni richiesti dall'attrice.
In relazione a tali ragioni del decidere si ritiene di dover precisare che non ha costituito oggetto di censura l'affermazione della corte d'appello, secondo cui il documento pubblicato dal notaio non aveva natura di originale. In verità, nel primo motivo, si sostiene che con l'intervento olografo nella scheda "il testatore avrebbe "manifestato la volontà di redigere due originali con il preciso scopo di assicurare che la propria volontà fosse contenuta in due documenti di pari valore" (pag. 11 del ricorso). Si tratta tuttavia di un passaggio argomentativo, inteso a suffragare ulteriormente l'inverosimiglianza di una volontà di revoca del testatore, tant'è che, nel seguito del ricorso, si riconosce che "fintanto che il ragionamento seguito dalla Corte d'appello verte sulla natura di originale o meno del documento trattando di accertamento di fatto sarebbe comunque escluso dalle attenzioni di questo il giudice" (pag. 14 del ricorso).

In effetti, i motivi di ricorso sono intesi a sostenere che la presunzione di revoca non opera in presenza del testamento scomparso. Si sostiene essere necessario, perchè scattino le presunzioni dell'art. 684 c.c., che chi afferma la revoca provi il fatto che il testamento sia andato distrutto, sia stato cancellato o lacerato dal testatore. Qualora tale prova non sia fornita, chi afferma la esistenza del testamento è libero di provare, con ogni mezzo, la sua esistenza e il suo contenuto. Tale prova nella specie derivava dalla copia non disconosciuta dell'olografo, tenuto conto della particolarità dei modi di formazione del documento. La corte d'appello avrebbe poi dovuto ammettere la prova testimoniale, intesa a dimostrare che il testatore non aveva volontà di revocare, per cui la presunzione, qualora in ipotesi operante, poteva essere superata grazia a tale prova.

4. I motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono infondati.

E' pacifico che l'art. 684 c.c., pone due presunzioni: l'una si riferisce all'imputabilità della distruzione al testatore, l'altra alla concomitanza, in questa distruzione, che si presume imputabile al testatore, dell'intenzione di revocare.

La dottrina riconosce il carattere relativo di ambedue le presunzioni stabilite dalla norma. Si ammette così la prova - da parte di chi vi abbia interesse - che la distruzione, lacerazione o cancellazione non fu opera del testatore, ma di un terzo ovvero che fu opera del testatore, ma senza volontà di revoca. Si fa l'esempio del testatore, il quale abbia volontariamente distrutto il testamento non per revocarlo, ma perchè aveva intenzione di farlo identico, migliorandone lo stile.

Secondo una diversa tesi avrebbe carattere relativo solo la prima delle due presunzioni previste dall'art. 684 c.c., mentre la distruzione ad opera del testatore darebbe luogo a una presunzione iuris et de iure di volontà di revoca. In base a questa opinione l'espressione legislativa, sulla prova della mancanza dell'intenzione di revocare, dovrebbe essere intesa come mancanza dell'"intenzione di distruggere lacerare o cancellare" il documento. Una volta accertata l'intenzione di distruggere non si potrebbe assumere di provare che il testatore non aveva con ciò l'intenzione di revocare, in quanto l'art. 684 c.c., ricollega alla distruzione volontaria del documento per opera del testatore una presunzione assoluta di revoca.

La giurisprudenza sembra orientata nello stesso senso della dottrina prevalente: la volontà di distruggere non implica necessariamente volontà di revoca, ammettendosi pertanto la prova che la distruzione del testamento olografo ad opera del testatore non era accompagnata dalla intenzione di revocare le disposizioni testamentarie ivi contenute (in questo senso, oltre a Cass. n. 12090/1995, Cass. n. 918/2010).

5. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 3286/1975) il mancato reperimento del testamento olografo giustifica la presunzione che il testatore l'abbia distrutto. "Il fatto che una scheda testamentaria, di cui si affermi o si provi, l'esistenza in un periodo precedente alla morte del de cuius, sia divenuta irreperibile pone in essere una presunzione di revoca, nel senso che possa essere stato lo stesso testatore a distruggerla a fini di revoca. Proprio per vincere tale presunzione, occorre che colui che mira a ricostruire mediante prove testimoniali, ai sensi dell'art. 2724 c.c., n. 3, art. 2725 c.c., il testamento che asserisce smarrito distrutto (non ad opera dello stesso testatore) fornisca la prova della esistenza del testamento stesso al momento dell'apertura della successione. Solo in tal modo si può infatti raggiungere l'assoluta certezza del fatto che non sia stato lo stesso de cuius a distruggere la scheda e così a revocare il testamento". Ai fini di tale prova può ricorrersi, secondo la Suprema Corte, anche alle presunzioni semplici (conf. 17237/2011).

Nello stesso tempo la giurisprudenza di legittimità chiarisce che: a) l'ammissibilità della prova per testimoni, diretta alla ricostruzione dell'olografo, deve coordinarsi con il disposto dell'art. 2724 c.c., n. 3, art. 2725 c.c.: la prova è da considerare inammissibile in caso di dolo o colpa dell'erede che possedeva la scheda (Cass. n. 952/1967; n. 918/2010); b) la ammissibilità della prova che la scomparsa del testamento non sia dovuta a chi chiede la ricostruzione "presuppone in ogni caso il positivo esperimento della prova contraria alla presunzione di avvenuta revoca della disposizione testamentaria" (Cass. n. 918/1910); c) laddove esista copia informe dal testamento, l'eventuale mancanza di un espresso disconoscimento della conformità all'originale della prodotta fotocopia, di per sè, è irrilevante ai fini del superamento della presunzione di revoca; d) infatti, il mancato disconoscimento potrebbe venire in considerazione solo dopo che sia stata superata la presunzione di revoca, "essendo evidente che detta conformità non sarebbe valsa ad escludere la possibilità che il testamento dopo essere fotocopiato fosse stato revocato mediante distruzione dallo stesso testatore" (Cass. n. 12098/1995; conf. Cass. n. 3636/2004).

6. E' stato obiettato che Cass. n. 3286/1975, nel decidere la controversia nella specie l'attore aveva prodotto una minuta informe asserendo che il de cuius aveva manifestato l'intenzione di disporre in quel senso e chiedendo così di provare l'esistenza dell'originale redatto in conformità di quella minuta originale di cui si assumeva lo smarrimento - non si è limitata ad affermare l'esigenza che fosse offerta la prova che la minuta era stata riprodotta in una vera e propria scheda ad opera del testatore, ma ha ritenuto altresì indispensabile la prova che detta scheda esistesse alla morte del testatore e non soltanto in un momento anteriore.

Ciò non si concilierebbe con l'art. 684 c.c., che prevede la possibilità di vincere la presunzione di revoca dimostrando o che il testamento venne distrutto da persona diversa dal testatore ovvero, in alternativa, che il testatore non ebbe intenzione di revocarlo. A maggior ragione la tesi accolta da Cass. n. 3286/1975 non sarebbe compatibile con la interpretazione corrente dell'art. 684 c.c., in base alla quale deve ammettersi la possibilità di dimostrare, persino nell'ipotesi di distruzione dell'olografo avvenuta ad opera dello stesso testatore, che questi non aveva intenzione di revocare. Quand'anche fosse sicuro che il testamento non esisteva al momento della morte del testatore, si potrebbe pur sempre dimostrare che il testamento, anche prima della morte del de cuius, era andato smarrito per fatto di terzi o per evento accidentale o comunque all'insaputa del testatore.

Cass. n. 12098 del 1995, nel riaffermare il principio che il mancato rinvenimento della scheda, ossia la sua irreperibilità, basta a legittimare la presunzione, posta dall'art. 684 c.c., che il de cuius lo abbia revocato, distruggendolo, sembra introdurre una significativa precisazione in ordine alla prova idonea a vincere la presunzione. Secondo la pronuncia in esame "occorre provare o che la scheda testamentaria, ovviamente quella originale, esisteva ancora al momento dell'apertura della successione e che, quindi, la sua irreperibilità non può farsi risalire in alcun modo al testatore, oppure che quest'ultimo, benchè autore materiale della distruzione, non era animato da volontà di revoca".

L'esame della giurisprudenza della Corte consente di riconoscere che, nel caso di irreperibilità del testamento di cui si provi l'esistenza in un momento precedente alla morte del de cuius, la prova contraria alla presunzione di revoca non passa esclusivamente attraverso la prova che il testamento ancora esisteva al tempo della morte del testatore. E' chiaro che, una prova siffatta, laddove fornita, consentirebbe di raggiungere la certezza assoluta del fatto che non sia stato lo stesso testatore a distruggere la scheda, come riconosce Cass. 3286 del 1975; da ciò, però, non si può trarre argomento per negare che, a vincere la presunzione di revoca, non possa servire anche la prova che "la irreperibilità della scheda non può farsi risalire in alcun modo al testatore", secondo la precisazione di Cass. n. 12098 del 1995.

In verità, in tale pronuncia, l'espressione della non riconducibilità della mancanza della scheda al testatore sembra concepita quale conseguenza della prova della esistenza della scheda al tempo della morte, ma per questa parte la pronuncia non può essere presa alla lettera. Non si può negare che l'ipotesi dello smarrimento non riconducibile al testatore comprenda, in linea di principio, anche l'ipotesi del testamento distrutto da un terzo o andato smarrito per un evento accidentale prima dell'apertura della successione.

Cass. 12098 del 1995 ammette inoltre senza mezzi termini, in alternativa alla prova della sparizione non riconducibile al testatore, la prova che il testatore "benchè autore materiale della distruzione, non era animato da volontà di revoca".

7. L'esame della giurisprudenza della Corte consente di enucleare i seguenti principi.

A) La irreperibilità del testamento, di cui si provi l'esistenza in un certo tempo mediante la produzione di una copia, è equiparabile alla distruzione, per cui incombe su chi vi ha interesse l'onere di provare che esso "fu distrutto lacerato o cancellato da persona diversa dal testatore" oppure che costui "non ebbe intenzione di revocarlo".

A tale orientamento, pur nella consapevolezza di autorevoli opinioni diverse (riecheggiate dal ricorrente), in base alle quali non esiste una presunzione nel senso che il testamento, di cui consti la confezione, ma che attualmente non si può ritrovare, sia distrutto, occorre dare continuità.

B) La prova contraria può essere data, anche per presunzioni, non solo attraverso la prova della esistenza del testamento al momento della morte (ciò che darebbe la certezza che il testamento non è stato revocato dal testatore), ma anche provando che il testamento, seppure scomparso prima della morte del testatore, sia stato distrutto da un terzo o sia andato perduto fortuitamente o comunque senza alcun concorso della volontà del testatore stesso.

C) E' ammessa anche la prova che la distruzione dell'olografo da parte del testatore non era accompagnata dalla intenzione di togliere efficacia alle disposizioni ivi contenute.

D) In presenza di una copia informale dell'olografo il mancato disconoscimento della conformità all'originale diventa rilevante solo una volta che sia stata superata la presunzione di revoca.

E) Ferma la prioritaria esigenza che sia stata data la prova contraria alla presunzione di revoca, sono applicabili al testamento le norme dell'art. 2724 c.c., n. 3 e art. 2725 c.c., sui contratti. E' quindi ammessa ogni prova, compresa quella testimoniale e per presunzioni, sull'esistenza del testamento, purchè beninteso la scomparsa non sia dovuta a chi chiede la ricostruzione del testamento.

8. La sentenza impugnata è in linea con tali principi, non solo con riguardo alla equiparazione della irreperibilità del testamento alla sua distruzione, ma anche in rapporto all'onere della prova a carico di chi intenda provare l'esistenza delle disposizioni testamentarie. La corte d'appello ha riconosciuto che la copia forniva la prova della esistenza dell'olografo e del suo contenuto nel momento in cui essa è stata formata, aggiungendo,. non potersi desumere da ciò il persistere della volontà del testatore fino al decesso, avvenuto il (OMISSIS), essendo la copia del 20 dicembre 2002.

Si tratta di una valutazione di fatto, logicamente coerente, incensurabile in questa sede. D'altronde non risulta che i ricorrenti avessero dedotto nei gradi di merito che il testatore si fosse trovato nella impossibilità di distruggere la scheda nel periodo compreso fra la formazione della copia e la morte.

La corte d'appello, seppure indichi la prova occorrente in quella di esistenza del testamento al tempo della morte, non esclude la possibile idoneità anche della prova intesa a dimostrare l'eventualità dello smarrimento del testamento "non riferibile al testatore o comunque non intenzionale se riferibile a questi" (pag. 13 della sentenza impugnata).

9. A un attento esame, la questione sul contenuto della prova contraria alla presunzione di revoca, nella specie, ha molto meno importanza di quella che emerge dalla lettura del ricorso.

I capitoli di prova, giustamente non ammessi della corte, non miravano a fornire la prova di un fatto tale da far apparire la scomparsa quale conseguenza del fatto del terzo o di un evento fortuito, nè di un fatto non compatibile con la distruzione operata dal testatore nel periodo compreso fra la confezione della copia e la morte.

Occorre poi tenere conto di quanto si legge a pag. 15 della sentenza: "Peraltro la prova dell'esistenza dell'originale del testamento al momento del decesso nel caso concreto deve essere particolarmente rigorosa perchè dalla fotocopia di esso risulta che l'originale secondo le intenzioni del de cuius era stato messo nella disponibilità di V.G., che al riguardo si è limitata ad affermare genericamente di non averlo reperito al momento del decesso del testatore. La circostanza, desumibile da tale affermazione, che ella non aveva avuto la disponibilità del testamento contrasta con la allegata sussistenza della volontà del P. fino al momento della morte di non revocare le disposizioni testamentarie in favore della V.. Il mettere l'originale nella disponibilità della beneficiaria era infatti chiaramente finalizzato a garantire la conservazione dell'atto fino al suo decesso perchè le sue volontà trovassero certa esecuzione. La sua mancata attuazione non può che essere considerato indicativo di un mutamento della volontà del de cuius (...)".

La considerazione della corte di merito ispira una ulteriore riflessione, che rende ancora più evanescente e generica la prova contraria alla revoca che si voleva dare attraverso i testimoni.

Delle due, infatti, l'una: o il testamento, in conformità alla dichiarazione del testatore, era nel possesso della V., e allora, giusti i principi sopra richiamati, la prova del contenuto del testamento implicava non solo che fosse superata la presunzione (ciò che la corte d'appello ha negato), ma implicava inoltre che la V. provasse che la perdita non era a lei imputabile; oppure, diversamente da quanto dichiarato dal testatore, costui non aveva attuato il proposito di dare l'originale della scheda alla V., e allora la prova contraria alla presunzione, imposta alla V., doveva farsi carico di dare ragione di tale circostanza, nella quale la corte di merito, con apprezzamento incensurabile in questa sede, ha ravvisato un elemento di fatto coerente con la presunzione di revoca e quindi, per definizione ostativo a ritenerla superata in considerazione delle circostanza indicate nei capitoli di prova per testimoni.

Condividi

Chiamaci
Lun
Mar
Mer
Gio
Ven
Sab
Dom

24

25

26

27

28

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

14

15

16

17

18

19

20

21

22

23

24

25

26

27

28

29

30

31

1

2

3

4

5

6

Autore: Webmaster Italiaonline 20 agosto 2024
« Nulla è più dolce dell’amore, ogni altra felicità gli è seconda; dalla bocca sputo anche il miele. Così dice Nosside; solo chi non è amato da Cipride ignora quali rose siano i suoi fiori. » Frammenti di Nosside in Antologia Palatina, libro V, 170 Meleagro di Gadara.  L’Enciclopedia Italiana ha selezionato il termine “femminicidio ” quale parola dell’anno 2023, nell’ambito della campagna di comunicazione #leparolevalgono. “ Come Osservatorio della lingua italiana – spiega infatti Va l e r i a D e l l a Va l l e , c o d i r e t t r i c e scientifica del “Vocabolario Treccani” – non ci occupiamo della ricorrenza e della frequenza d’uso della parola “femminicidio” in termini quantitativi, ma della sua rilevanza dal punto di vista socioculturale: quanto è presente nell’uso comune, in che misura ricorre nella stampa e nella saggistica? Purtroppo, nel 2023 la sua presenza si è fatta più rilevante, fino a configurarsi come una sorta di campanello d’allarme che segnala, sul piano linguistico, l’intensità della discriminazione di genere ”. Ebbene, a febbraio 2024, il Parlamento Europeo e gli Stati dell’Unione hanno raggiunto l’accordo sulla Direttiva Europea sulla violenza di genere, la prima legge europea che si occupa della materia. L'obiettivo è di rendere omogenea la lotta alla violenza sessista nell'Unione Europea, eliminando e superando normative distanti e disparate fra di loro, vigenti fra i vari Stati. Rappresenta una pietra miliare, perché è il primo strumento giuridico, completo a livello UE, destinato a contrastare la violenza contro le donne. La futura Direttiva si occuperà di cyberbullismo, incitamento all'odio online e violenza, matrimonio forzato, mutilazione genitale, violenza informatica, molestie sessuali attraverso mezzi digitali. Comprenderà un elenco di circostanze aggravanti; l'intento è di punire le violenze effettuate per motivi di orientamento sessuale, genere, colore della pelle, religione, origine sociale, convinzioni politiche, oppure per preservare o ripristinare " onore" ; sono miglioratele procedure per la sicurezza e la salute delle vittime, una migliore attività di segnalazione, prevenzione e raccolta di prove da parte delle autorità. Rappresenta tuttavia una grave lacuna della Direttiva l’esclusione della sua applicazione alle donne migranti. Ulteriore perplessità è costituita dal fatto che non includerà uno dei reati più gravi, ossia lo stupro, il fatto più violento alla persona e alla libertà delle donne. Il mancato inserimento dipende da una serie di fattori che la Commissione Europea ha tentato di dirimere. Infatti, a marzo 2022, la Commissione europea aveva formulato la proposta di definire la violenza sessuale, identificandola quale rapporto in assenza del consenso. Quindi qualsiasi rapporto sessuale non concordato sarebbe stato tipizzato come stupro; le vittime sarebbero state agevolate dal punto di vista processuale, in quanto non avrebbero dovuto fornire la prova che fosse stata utilizzata la forza, la minaccia o la coercizione. Alcuni paesi già hanno adottato, in ambito nazionale, la definizione del reato quale rapporto basato sulla mancanza di consenso. Diversi paesi, anzi ben 14, si sono opposti ad una simile definizione. La Germania e la Francia sostengono che la materia specifica appartiene alla potestà legislativa penale nazionale e non è fra quelle delegate all'Unione. La Polonia e l'Ungheria sono ideologicamente contrari al fatto che il consenso possa costituire la base per la distinzione o meno del rapporto lecito dall'illecito. La domanda chiave è su “ cosa o come” intendere il rapporto consensuale. Secondo alcune correnti del femminismo, “ il consenso è impossibile ”. La disuguaglianza di potere tra uomini e donne è così grande che, di fatto, ogni accordo è viziato a livello del sistema sociale. Finché ci sarà disuguaglianza di potere ci sarà violenza. La libertà di una delle parti, quella delle donne, è un’apparenza. Il rapporto diventa un obbligo, in quanto in una società patriarcale si vive male e con alibi. Si tratta di una visione autoritaria, manichea, e come tale è inaccettabile. Secondo altre teorie il consenso è possibile e, per di più, dovrebbe essere obbligatorio, affermativo, esplicito. Da un lato propone che “ il consenso non è impossibile, ma è difficile ”, per cui bisognerebbe “assicurarsi” che la donna esprima un chiaro “ sì ” oppure un “ No ” è no” , ma ciò non appare accettabile in quanto immergerebbe il rapporto in una visione di tipo contrattualistico, lontana dalla realtà effettuale. Secondo altri il “ consenso è molto facile .” Basta sapere cosa vogliamo e verbalizzarlo. Quanto più inequivocabile è questa espressione positiva della volontà di fare sesso, tanto meglio è. Non dobbiamo prestare attenzione solo alla volontà, ma anche al desiderio. Anche questa teoria appare non recepibile, in quanto collega la volontà al desiderio, come se il desiderio fosse sempre trasparente e intelligibile e, invece, non abbia momenti di ambiguità, per cui un “no”, molte volte è un ”sì”. Il consenso può essere non necessariamente entusiastico e anche non esplicito, ma certamente è delimitato dall’area legale e penale, per cui se non c'è volontà e non c’è consenso, allora si tratta di violenza; altro limite è rappresentato dall’etica, per cui se manca la volontà perché c’è stata un’incomprensione, un errore, manca il sentimento fra amanti, ma non c’è aggressione, intimidazione, allora non è un crimine. La direttiva costituisce un traguardo nella lotta alla violenza di genere, ma dimostra la persistenza di una mentalità passata e contraddittoria, in quanto la stessa Convenzione di Istanbul , adottata da quasi tutti gli Stati Europei, all'art. 36, comma 1 lett. a, obbliga gli Stati firmatari ad adottare misure legislative per perseguire penalmente i responsabili dei comportamenti intenzionali, fra cui lo stupro, definito come "atto sessuale non consensuale". Ebbene, dopo la ratifica del 2013, l’articolo 609-bis c.p. non ha subito modifiche per allinearlo alla Convenzione di Istanbul. In particolare, la sua formulazione non menziona il consenso, rappresentando una vera e propria lacuna giuridica. Sul punto soccorre la giurisprudenza e la dottrina che invece lo considerano come elemento essenziale del reato. La recente sentenza della Corte di Cassazione conferma il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui il consenso debba essere presente al momento dell'atto e, malgrado il comportamento provocatorio, anche durante tutto l'atto sessuale. In precedenza aveva affermato che «l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale»; ne deriva che «ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale, è richiesta la mera mancanza del consenso, non la manifestazione del dissenso, ben potendo il reato essere consumato ai danni di persona dormiente ». Alcune pronunce hanno riconosciuto la configurabilità, in astratto, dell'esimente putativa del consenso nei reati sessuali, come errore fondato sul contenuto espressivo , in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla persona offesa. Il consenso della vittima non vale se erroneamente ipotizzato dall’autore; l’assenza di consenso non vale come sì; il consenso dovrebbe essere esplicito ed inequivocabile. Il richiamo è, quindi, ai valori della nostra Carta Costituzionale, alla parità di genere, all’educazione e al rispetto reciproco della dignità umana, quale base per le relazioni umane. BIBLIOGRAFIA Il termine " femminicidio " deriva dall’unione del sostantivo femminile “femmina” a cui è aggiunto il suffisso “cidio”, similmente a omicidio, deicidio, regicidio, ecc. Secondo l’Accademia della Crusca, il femminicidio consiste nel “provocare la morte di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, in conseguenza del mancato assoggettamento fisico o psicologico della vittima”. https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/femminicidio-i-perche-di-una-parola/803. https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/femminicidio-e-la-parola-dell-anno-2023.html . Secondo la Platform for undocumented migrants (Picum), una ong con base in Belgio che promuove il rispetto dei diritti umani dei migranti senza documenti in Europa, ha denunciato la cancellazione delle norme che avrebbero protetto le donne migranti, in particolare coloro senza documenti o con un permesso di soggiorno temporaneo. Clara Serra, “Il senso del consenso”, Nuevos cuadernos Anagrama, 2024; intervista su https://youtu.be/AuCIVgPY1 La Convenzione è stata ratificata in Italia con la legge del 27/6/2013 n.77. Invece il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119, è la prima "legge contro il femminicidio", così nel suo preambolo: "il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica". Corte di Cassazione, Sezione Penale n. 32447 del 26 luglio 2023: «integra l’elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona». Cassazione Penale, Sez. III, 10 maggio 2023 (ud. 19 aprile 2023), n. 19599 “In tema di violenza sessuale, il dissenso della vittima costituisce un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice e, 8 pertanto, il dubbio o l'erroneo convincimento della sua sussistenza investe la configurabilità del fatto - reato e non la verifica della presenza di una causa di giustificazione (Sez. 3, n. 52835 del 19/06/2018, Rv. 274417). Il dissenso, quale elemento oggettivo della fattispecie, deve vertere sugli atti sessuali e consiste in un fenomeno di natura psichica che concerne lo stato soggettivo del soggetto passivo, non quello del soggetto attivo del reato. Da ciò deriva che il dissenso è fuori dalla valutazione degli elementi soggettivi del reato e quindi del dolo. Diversa invece è la valutazione in ordine alla coscienza e alla volontà della condotta da parte del soggetto autore del delitto. Nel reato di violenza sessuale, la coscienza di costringere la persona offesa a compiere o a subire un atto sessuale si manifesta innanzitutto nella consapevolezza del dissenso di questa. Pertanto, l'errore sul dissenso, che esclude il dolo ai sensi dell'art. 47 cod. pen., consiste nell'errore sul valore sintomatico delle manifestazioni esterne di resistenza all'atto sessuale poste in essere dalla persona offesa. Trattandosi di un errore sul fatto, è necessario che il soggetto, che ha agito presupponendo una realtà diversa da quella effettiva, debba dare pienamente conto degli elementi fattuali che hanno determinato in lui, nonostante l'uso della normale diligenza, l'erroneo convincimento dell'esistenza del consenso”. Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 06/12/2023) 05/03/2024, n. 9316. Articolo estratto da “L’Eco Giuridico" n. 4 de1 8/04/2024- Centro Studi Zaleuco Locri
Autore: OPPEDISANO GIUSEPPE 3 dicembre 2023
Dalle visure catastali spesso è visibile l'esistenza di un livello, ossia la concessione in godimento di un terreno a fronte del pagamento di un corrispettivo annuo. Si tratta di un istituto risalente al diritti romano e che ha avuto grande applicazione in periodo medievale. In particolare i grandi proprietari terrieri (Comune, Chiesa, Nobiltà) costituivano sui loro terreni degli oneri a favore degli affittuari. Oggi sebbene in molti atti sia constatabile, i rispettivi titolari da tempo non lo esercitano, e non ritengono di essere vincolati. Ebbene, in un'ipotesi di contestazione sulla validità dell'iscrizione, è intervenuta la Cassazione, che ha così statuito: " il regime giuridico del livello va assimilato a quello dell'enfiteusi, in quanto i due istituti, pur se originariamente distinti, finirono in prosieguo per confondersi ed unificarsi, dovendosi, pertanto, ricomprendere anche il primo, al pari della seconda, tra i diritti reali di godimento. L'esistenza del livello deve essere accertata mediante il titolo costitutivo del diritto o l'atto di ricognizione, mentre deve escludersi rilievo ai dati catastali " .
Autore: OPPEDISANO GIUSEPPE 3 dicembre 2023
Te, dei miti pensieri, La blandizie non tocca; altri cerchi le care Dolcezze onde si rallegra di bimbi il focolare, Da Tali gioe rifugge il focolare. Tu sei forte e selvaggia, come il vento che rugge Nella tua valle. Tutto hai quanto brami. Giacosa , “Il trionfo d'amore”, atto 2 scena 11, Treves 1934
Altri post
Share by: